Ho scelto di parlarvi dell’handicap delle “buone” intenzioni poiché è, forse, tra quelli che è più difficile da individuare e superare con facilità.
I 7+1 handicap dell’Ortho-Bionomy si alimentano e si sostengono l’un l’altro e definiscono la nostra idea di quello che è giusto e quello che è sbagliato, buono o cattivo. Penso che l’uomo sia solitamente mosso dalla spinta di fare “il giusto” in base alla propria identità culturale e convinzioni inculcateci nella nostra infanzia principalmente.
Di azioni nel nome del “bene” ne sono pieni i libri di storia: guerre, invasioni, discriminazioni, omicidi ecc…
Parlando del nostro campo, è pericoloso giudicare o considerare sbagliato un atteggiamento posturale, un comportamento del sistema nervoso, o una reazione psicoemotiva, anzi, dovremmo invece pensare ai sintomi come un informazione di disfunzione, ovvero un non funzionamento naturale e ottimale di un sistema.
Studiando molto la struttura anatomica si impianta nel nostro cervello la forma giusta, e la nostra intenzione è ritornare allo schema anatomico corretto, è proprio qui si sviluppano tutte quelle tecniche e discipline che forzano il corpo verso il “giusto”.
Il terapista convenzionale, con le migliori intenzioni, forza (spesso con dolore) il corpo a seguire le sue convinzioni.
Siamo sicuri che le nostre buone intenzioni siano veramente tali? O, invece, veniamo sopraffatti da un nostro personale senso di giustizialismo? Ed è sano che di conseguenza si provochi dolore negli altri?
“La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni”.
Forse questo avviene quando il nostro ego è più forte della volontà di comprensione profonda dell’altro, c’è una volontaria prevaricazione di uno sull’altro, un imposizione del “giusto” sullo “sbagliato, e, infine, viene meno una relazione sana preparando il campo alla battaglia.
Usciamo da poco da un conflitto sociale tra vax e no vax, dove i vax volevano imporsi obbligando i no vax a vaccinarsi e, i vax non si sentivano al sicuro in presenza dei vax (ennesimo esempio di eterno dualismo che cambia nome e forma ma non nella sostanza).
La nostra società, con le sue materie preferite, chiamate da Arthur handicap, ci tiene al guinzaglio, chi con più convinzione e chi con meno, ma oserei dire che vivendoci all’interno è solo un‘illusione l’idea non far parte del gioco, siamo tutti al guinzaglio, dal pagare la bolletta della luce al fare la pipì in una ceramica su cui abbiamo pagato le tasse.
Quando realizziamo di essere “schiavi “del sistema soffriamo e incolpiamo i politici, i medici, la scuola, i genitori ecc… e iniziamo a sentirci dei ribelli, questo potrebbe da un lato gratificarci, ma invece, ci separa dagli altri che sono rimasti ad un “livello evolutivo inferiore”, generando sofferenza (dividi ed impera).
Ed è qui che si insinua il paradosso di essere un diverso che si sente nel “giusto” che giudica la massa come “sbagliata”, quando statisticamente è maggiore la probabilità di essere io il “pirla”.
Fare esattamente il contrario del “normale” non è una buona strategia per “superare” gli handicap, ma un buon modo per entrare in conflitto con una parte di noi stessi e con chi reputiamo “handicappato”.
Dovremmo invece occuparci di essere dei buoni terapisti, semplicemente ascoltando e accogliendo l’altro per uno scambio sereno di informazioni liberandoci entrambi dalla sensazione di essere incompreso e sbagliato.
Personalmente ho avuto la fortuna di essere figlio di genitori orthobionomisti, e conosco nel quotidiano la sensazione di spazio, di non giudizio e la libertà di essere trattato nella vita come facciamo con i nostri pazienti, e dovremmo dedicare la medesima attenzione, benevolenza e compassione ai nostri amici, genitori, mogli, e forse anche ai nostri “nemici”.
Passare attraverso il corpo fisico, le nostre buone intenzioni, la religione, la politica, la medicina, l’educazione, e il sentirci prigionieri incapaci di uscirne, diventa una risorsa per comprendere meglio chi siamo, cosa ci piace, uscire dalla miopia del mondo duale, e vedere con più chiarezza ciò che ci circonda.